Pasquale Iezza: “Conoscere il corpo per imparare il rispetto”
Educare al rispetto di sé e degli altri, partendo dalla consapevolezza del proprio corpo. È questo il cuore del progetto promosso da Pasquale Iezza, scrittore e formatore, che da anni si impegna a scardinare i tabù legati all’anatomia e alla sessualità, per costruire una cultura del consenso e dell’ascolto. Il suo lavoro editoriale e formativo si rivolge non solo ai ragazzi e alle ragazze, ma anche a genitori, docenti ed educatori, con l’obiettivo di creare un linguaggio accessibile, diretto e inclusivo. In questa intervista, Iezza racconta le sfide incontrate nel parlare apertamente di pene e vagina, l’importanza di portare questi temi nelle scuole e l’urgenza di una formazione adeguata per chi accompagna i più giovani nel loro percorso di crescita.
La tua missione sembra chiara: sradicare la violenza giovanile a partire dalla consapevolezza del corpo. Perché proprio la conoscenza anatomica può diventare un antidoto alla violenza?
Una sana educazione sessuale insegna che il corpo è proprio e inviolabile, ma anche che il corpo dell’altro merita lo stesso rispetto. Nella narrazione ho cercato di parlare di consenso, di confini, di ascolto reciproco. Partendo da esperienze umane non limitate all’atto fisico ma alla conoscenza della sfera affettiva, che tengano conto delle emozioni e delle relazioni interpersonali, si possono allontanare le violenze.
Parlare di pene e vagina in modo diretto con i ragazzi può sembrare difficile: quali resistenze hai incontrato – se ne hai incontrate – durante la stesura o la proposta del libro?
Quello che io ho definito periodo pub, un’età che va dai 10 ai 15 anni, il periodo della pubertà, è quello in cui le persone subiscono le trasformazioni fisiche e psicologiche più evidenti perché si è frastornati da un cocktail di ormoni che entrano in circolo, è il momento migliore per parlare in modo diretto con gli adolescenti, ma è anche il momento più difficile perché il loro corpo, improvvisamente, è in rapido sviluppo con scatti di crescita e sbalzi di umore. Le difficoltà comunicative possono essere superate cercando di entrare in relazione in modo spontaneo e naturale soprattutto ascoltando i loro bisogni nascenti, senza avere l’atteggiamento di chi ha già la soluzione in tasca. Questa parte della stesura del libro è stata la più complicata proprio perché il periodo pub è un momento di crescita molto particolare nel quale bisogna entrare cautamente, con rispetto, in silenzio e in punta di piedi.
Quanto è importante, oggi, portare questi temi nelle scuole? E che tipo di formazione dovrebbe avere chi si occupa di educazione sessuale?
Penso che bisognerebbe iniziare ad educare presto alla sessualità, a casa e a scuola, in quanto già durante l’infanzia si imparano i ruoli sessuali; i bambini a tre, quattro anni, cominciano a notare di non essere uguali tra loro e all’età di dieci, undici anni, acquisiscono la consapevolezza di essere diversi sessualmente. Mi piacerebbe che in ogni istituzione scolastica ci fosse un sex educator, un docente appositamente formato, con un percorso accademico di specializzazione specifico, in grado di informare adeguatamente gli studenti.
I tuoi testi si rivolgono ai giovani ma anche a chi educa. Come hai lavorato per costruire un linguaggio inclusivo, che non risultasse né paternalista né banalizzante?
Ho scritto due libri di educazione alla sessualità non pensando principalmente ai giovani, ma, soprattutto, a chi li accompagna nel percorso di crescita: genitori, insegnanti, educatori. Ho cercato di usare toni non da “grandi che spiegano”, ma da “esploratori che informano” attraverso un linguaggio chiaro, rispettoso delle diversità, inclusivo, non banale, vicino alle esperienze reali e lontano sia da stili paternalistici che da approcci semplificati o banali. L’obiettivo è offrire uno spazio sicuro, aperto e onesto in cui parlare di corpo, emozioni, relazioni e desiderio.
Se dovessi immaginare un laboratorio scolastico ispirato ai tuoi libri, da cosa partiresti? Quale attività simbolica potrebbe rappresentare al meglio il tuo messaggio educativo?
Immaginerei un laboratorio nel quale si parlerebbe di corpo, emozioni, desideri, confini, relazioni, identità, attraverso una conversazione, un ascolto, uno scambio. Un’attività simbolica potrebbe essere il gioco dei gomitoli di lana, ogni ragazzo ne avrà uno con un colore diverso, i gomitoli a mano a mano si dipaneranno e ogni filo passerà da una persona all’altra costruendo una rete fatta di parole, di storie, di sguardi, di emozioni, dove ognuno possa fare domande senza vergognarsi, dove ogni esperienza abbia valore, dove non ci siano risposte giuste o sbagliate. La rete con i suoi intrecci sarà il simbolo del percorso, uno spazio condiviso dove i fili passeranno da una persona all’altra evitando di formare nodi ma linee di comunicazione, ponti, per capire come si possa stare bene con se stessi e con gli altri.
Tags :
Interviste