Pietà per l’esistente. Satire e poesie censurabili di Paolo Pera. Recensione e intervista

Pietà per l’esistente. Satire e poesie censurabili, Paolo Pera, Ensemble Edizioni (2021). Studente universitario di filosofia, fumettista, pittore e scultore, Paolo Pera ha pubblicato il romanzo La scuola attraverso i miei occhi (Vertigo, 2012) e la raccolta poetica La falce della decima musa (Achille e La Tartaruga ed., 2020) e nel 2021 pubblica Pierino Porcospino (Gian Giacomo Della Porta Editore), una rielaborazione del classico per l’infanzia di Heinrich Hoffmann. 

Pietà per l’esistente. Satire e poesie censurabili è il suo ultimo lavoro, una «critica sociale in versi» verso la contemporaneità̀ politica, religiosa, estetica e umana. L’io poetante è qui l’osservatore di un Occidente che ha smarrito gli argini logici, come pure il senso del bello. Tra invettive e pasquinate, il poeta si scopre sì capace di un’innata avversione per l’altrui «bruttezza desiderata» ma anche compassionevole nei confronti del dolore che instaura questa bruttezza, ossia quel perdimento che fa decadere l’uomo nella caotica boria relativista.

Ad aprire il percorso è una poesia folgorante, La morte sul triciclo, che tocca uno dei temi prediletti dal nostro poeta: la morte, anch’essa posta qui in una luce compassionevole. - si legge nella postfazione di Andrea Laiolo - Con geniale ispirazione grottesca, la morte ci viene presentata sì nel suo connotante nero ma sul triciclo, mentre viaggia sul marciapiede, e soprattutto, avvicinandola per parlarle, il poeta comprende la “sofferenza che cela”. Qui scatta l’ironia verso sé stesso: come un grintoso bambino messo sulle difensive, la morte estrae il repellente per cacciare l’aggressore speculativo, il quale vorrebbe indagarne il mistero ultimo, ma resta accecato e si domanda se la morte non sia in realtà questa cecità, cioè il non sapere. È un esordio perfetto, che dà al lettore la cifra di tutto il libro.

LA MORTE SUL TRICICLO
L’aspetto con ansia
Al di qua della finestra,
E la vedo viaggiare
Nera sul marciapiede
A bordo d’un triciclo.
M’avvicino, per parlare
E comprendere
La sofferenza che cela.
Mi guarda con lo stupore
D’un bimbo lardoso,
Sfodera il repellente
Per ogni perverso
Che in Lei cerca riposo.
M’acceca, più non vedo
Alcuna vita appariscente.
Quest’austera cecità
Sarà mica la morte?

L’INTERVISTA

Paolo, come è nata la tua raccolta di poesie?
La raccolta nacque come un unico grande libro – insieme a quella che ora sarà la seconda anta di un dittico, Pena di me stesso –, queste due parti: la pietà per il mondo e quella per sé, in un certo qual modo volevano essere il mio omaggio al Pound giovanile (poeta da me sempre amato, e del quale conobbi pure la figlia Mary), quello del Mauberley, dove una voce poetante demolisce la propria contemporaneità – già in odore d’Usura – e nel mentre critica aspramente anche sé stessa in qualità di “poeta non indispensabile”; Pound infatti era tanto critico con sé da auto-sabotare il proprio lavoro, gettandolo magari nella laguna di Venezia, e io pure ma senza laguna (basta il cestino del desktop, ormai). Infine, come suggerivo, questo grande libro – effettivamente abnorme, centosessanta pagine – è stato da me troncato a metà: oggi esordisce la “critica al mondo”, ossia la Pietà, che si trasforma però nella futura Pena attraverso la poesia conclusiva, Il compassionevole, nella quale la vena satirica si ritira a guardare le debolezze dell’io permettendogli così di comprendere che questo “gioco dell’attacco” (che sta nel libro) nasca comunque da un sentimento di commozione per lo svanire e il soffrire di tutte le cose. Concludo solo ringraziando Mario Marchisio, un notevolissimo poeta di Torino, che per anni mi è stato maestro, seguendomi nella costruzione esatta delle mie opere: senza di lui io non farei quello che faccio o, per meglio dire, non lo farei bene.  

C’è un filo conduttore che lega tutte le sette sezioni del libro?
Ecco, un po’ dovrei già aver risposto sopra… Le sezioni tra loro non sono perfettamente comunicanti, non tutte almeno. La prima vede per lo più alcune riformulazioni di poesie già apparse nella mia opera d’esordio, altre sono introduttive, penso a Mari aperti che guarda a un tema molto presente nel libro; ma anche citare Madama Morte ha significato in relazione a quella paura del divenire che affligge me e la mia Poesia (si veda Riappropriarsi del nulla). Vi sono poi le Pasquinate al papa, che quasi potrebbero farmi intendere come un cattolico tradizionalista, cosa che non sono e che viene smentita con alcune satire che riprendono fatti evangelici… Viene dunque a manifestarsi un’apparente contraddizione – che è il mio sport preferito, che è la verità del mondo nel suo “ridicolo cosmico”, nella sua impossibilità di logica vera e di Sublime –. Dopo alcune poesie filosofiche, le più “innocenti”, si arriva alla sezione maggiormente significativa, La bruttezza desiderata, nella quale prendo la mia reale posizione estetica sui costumi correnti. A mio parere tale bruttezza è mera manifestazione esteriore della sofferenza d’ognuno: se v’è chi nel dolore tenta il perfezionamento, altresì le odierne masse tendono allo sgretolamento, a putrefarsi prima del tempo. A unire ogni cosa, come già dicevo, è la pietà che tutto avvolge e che tutto attacca (pietosamente).

Pietà per l’esistente. Satire e poesie censurabili. Perché questo titolo?
Anche qui, un po’ ho già risposto (pure a scuola mi capitava di rispondere a una domanda in quella che la precedeva, a quel punto scrivevo: vedi sopra… Generalmente i docenti soprassedevano, e voi?). Pietà per l’esistente, uhm. Effettivamente la mia educazione, la mia coscienza e i miei studi si sono volti alla compassione per i deboli, per i sofferenti, (in chiave cattocomunista, forse?), e considerandomi a lungo uno di questi ne ho sempre desiderato l’uso nei miei riguardi, benché – quando arrivava – mi dimostravo refrattario a esserne avvolto, non l’accoglievo considerandola insincera: nella solitudine ontologica a cui sempre ho creduto d’essere condannato mi appariva universalmente impossibile l’intera figurazione del dolore altrui. È anche per ciò che in questo libro la mia compassione diventa satira: lo diventa perché mi pare simulata, posticcia; la pietà è dunque tradotta nel suo opposto, la sottolineatura di quei difetti che fanno avere pietà… Nei miei libri desidero dare dimostrazione di almeno una cosa: della dialettica che mia abita, producendo sostanzialmente un autoritratto, un percorso – quasi mai impossibile da portare davvero a termine – di riflessione. Qui, lo ripeto, l’impossibilità di comunione con l’altro porta a invalidarne l’eventuale tentativo con la satira (quasi in un auto-castrazione della pietà), identificando quel brutto irrimediabile in cui siamo giunti volontariamente: schiavi anzitutto di quel pastore invisibile che le greggi indirizza, confonde e instupidisce (dicesi anche Capitale).

C’è una poesia che può essere presa come emblema della raccolta?
Qualcuna l’ho già tirata fuori, terrei ancora a sottolineare lo scetticismo profondo che abita la voce poetante di questo libro: una voce sì dichiarativa, ma pure impaurita dall’idea d’essere viva (d’esserci): dichiarare con debolezza se non sospendere direttamente il giudizio è quanto si può, o si dovrebbe, fare. Il mondo però è tanto contorto nel Male che risulta impossibile frenare il dire, semmai è doveroso divenire una voce chiara nella Babele dilagata, nel rumore infecondo, nel vuoto rumore, ma proclamarsi tale è già un atto di tracotanza (ed ecco il mio peccato!). Sì, sono decisamente pessimista e questo libro è un manifesto della mia disposizione d’animo. Per lo scetticismo potrei citare: Il mondo non esiste, Dopo la Peste (che, per di più, è finita in copertina), e non so che altro. Il resto lo ritrovate nelle righe precedenti. Va tenuto conto, come ripeto, che ad abitare anzitutto questo libro è il rapporto con la temporalità, ancor più che con la realtà: a mio parere la disgregazione non è negli uomini, essi sono vittime nel tempo che stiamo abitando! Se queste poesiole saranno eventualmente in grado dare una o più chiavi di letture per intendere la contemporaneità non potrò che esserne lieto; agli ottusi, invece, che si vorranno fermare alla superficie dello scritto non verrà da me concessa alcun’altra parola. Poesie censurabili, infine, si capisce… Ironizzo un po’ sul mio stesso lavoro, che poi non è così eversivo.