Raiva esordiscono con “Nausea”, ritratto sonoro di una generazione
La vostra penna alterna immagini concrete e riferimenti emotivi molto crudi. Come nasce il vostro approccio alla scrittura?
Il nostro approccio alla scrittura nasce per descrivere attraverso la musica tutti quei sentimenti e pensieri che non hanno trovato spazio in una società a cui manca la propensione al dialogo, che non sopporta, non digerisce un confronto sano e libero. L'alternarsi di immagini ed emozioni ci serve per fare associazioni che normalmente, quindi in un contesto che non è quello artistico, sarebbero giudicate come sterili nel migliore dei casi.
C’è un brano dell’EP che ha richiesto più lavoro o più consapevolezza degli altri?
Probabilmente quello che ha richiesto più lavoro è “Chiuse le mani”, il brano più denso per immagini, mentre quello che ha richiesto più consapevolezza è stato “Me musa”, il primo dopo dopo una lunga pausa dalla scrittura.
Nei testi affrontate spesso l’idea del “sentirsi fuori posto”: quanto è personale e quanto generazionale questo discorso?
Difficile sentirsi al proprio posto se non si ha lo spazio necessario per comprendere che un posto lo si può scegliere. Sentirsi fuori posto è non sentirsi accettati e/o non accettare chi gravita nella propria sfera personale, ognuno con il proprio punto di vista, con la propria lente rimpicciolisce o ingigantisce il discorso. È sicuramente molto personale, ma allo stesso tempo non credo sia poi complicato trovare affinità con chi ha condiviso uno stesso periodo.
Come gestite il confine tra racconto autobiografico e dimensione narrativa?
La gestione è libera e istintiva, non ci sono sequenze o formule particolari.
Pensate che oggi il rap abbia più responsabilità nel raccontare il disagio sociale?
La responsabilità di raccontare il disagio oggi e probabilmente da sempre va ben oltre il genere musicale, chiunque ha voglia di pensarsi umano dovrebbe sentire il peso delle proprie responsabilità quando si parla di disagio.
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