Delio Lambiase: intervista per il nuovo singolo “Je Nu' Trovo Pace”

 

Con “Je Nu’ Trovo Pace”, Delio Lambiase torna con un brano che scava nella parte più silenziosa e vulnerabile dell’essere umano. Un pezzo che non consola, ma illumina: qui la musica diventa un luogo di coscienza, un tentativo lucido di restare presenti mentre tutto intorno corre, distrae, inganna.
Lambiase indaga il torpore emotivo e spirituale della nostra epoca, quella condizione in cui viviamo “come automi”, sospesi tra illusioni e realtà che non vogliamo guardare davvero. Il singolo si trasforma così in una riflessione sul bisogno di ritrovare sé stessi, di riconoscere quella “nota interiore” che ognuno custodisce, spesso senza saperlo.

In questa intervista per Il Riflettore, l’artista racconta cosa significa “ricordare un altro mondo”, come si difende la propria purezza creativa in un sistema musicale sempre più competitivo e perché, quando la sua musica tocca le persone, si crea un ponte più vero di molte relazioni quotidiane. “Je Nu’ Trovo Pace” diventa così non solo un ascolto, ma un invito alla presenza, alla consapevolezza e alla connessione profonda.

Nel testo parli di coscienza intorpidita. Pensi che oggi siamo più distratti o semplicemente più disillusi?
Siamo più distratti e per nulla disillusi, anzi, continuiamo a vivere nell’illusione. La maggior parte di quanto ci accade, di quanto pensiamo, sentiamo e facciamo, avviene proprio in assenza di una coscienza vigile, in assenza di una nostra Presenza nella vita, proprio come se fossimo degli automi. In questo contesto, le distrazioni lavorano per tenerci nell’illusione che stiamo partecipando alla vita; esse ci tengono inchiodati in un folle incantesimo che non ci consente di restare in contatto con noi stessi, con la verità di chi siamo.
 
Cosa significa per te “ricordare un altro mondo”? È un concetto spirituale o simbolico?
È un concetto spirituale, difficile da verbalizzare e trasmette poiché può essere percepito solo da coloro che – non per scelta, né per qualità umane – sentono di essere stati catapultati su di un pianeta non proprio e portano in sé una sorta di ricordo inconscio di un Altro Mondo, un prericordo che si esprime, per lo più, sotto forma di sacra nostalgia o sacra inquietudine, e di insofferenza e inadeguatezza alle leggi e alle dinamiche di funzionamento di questa esistenza. Questo ricordo è come il suono di una nota interiore che può essere percepita e riconosciuta solo quando ti poni nell’ascolto di te.
 
Quanto è difficile per un artista mantenere la purezza in un sistema musicale sempre più competitivo?
È difille, così come lo è in tutti gli ambiti umani; insomma, la musica, e l’arte in genere, non fanno eccezione poiché anch’esse sono competitive, anch’esse, spesso, sono totalmente snaturate e asservite alla logica del consumo che caratterizza la nostra epoca.  Ovviamente, in base al mio grado di consapevolezza, cerco, entro i limiti in cui ciò è possibile e in base alle forze che ho, di non tradirmi e restare fedele me stesso. Ho la fortuna, che può essere considerata anche una sfortuna, di non sostentarmi tramite la musica; ciò mi offre molta libertà di espressione e la possibilità resistere a tutti gli ammiccamenti delle mode.
 
Come reagisci quando senti che la tua musica tocca le persone?
È una bella magia poiché significa che in quel caso, fra me e chi ha ascolta, si è creato un ponte molto più reale e importante di quello che possiamo trovare nelle relazioni che intratteniamo nella vita quotidiana. Quel ponte è una linfa vitale artistica per me che faccio musica e , mi auguro, per gli ascoltatori.
 
Cosa speri che chi ascolta “Je Nu’ Trovo Pace” porti con sé?
Non c’è una finalizzazione preordinata nella mia musica: tutto parte da una necessità interiore che è quella di condividere quello che rallegra o agita la mia coscienza. Poi, è chiaro che mi piace l’idea che qualcuno che ascolti il brano ne riconosca la vicinanza e si senta coinvolto interiormente in quello che canto.